“Götter wandelten einst bei Menschen.”
Hölderlin

«Un tempo gli dei camminavano tra gli uomini» ricorda Hölderlin, facendo cenno al principio. Di tale accordo restano echi nell’indeterminato della nostra vita interiore. Lo testimonia Roberto Perotti con queste sue opere.
È spirito il segno che fonda questi dipinti. È spirito inteso nel senso greco di pneuma e nel senso latino di spiritus, parole che evocano l’idea del soffio e del respiro, o del vento che spira dove vuole. È spirito che non si lascia catturare.
La parola spirito non è scomparsa, perché non ne è scomparsa l’esperienza. All’esperienza dello spirito occorrono conversione e distacco, ovvero la fine dell’egoismo e la rimozione della centralità dell’io; tutti elementi propri degli ultimi lavori di Perotti. Attraverso lo spirito, l’artista ci porta in prossimità del logos, l’essenza originaria che tutto governa: ragione umana e follia sacra insieme.

Accostarsi al sacro non consiste nel trovare pace, magari coprendo con un balsamo la profonda ferita dalla quale ognuno di noi è segnato. Accostarsi al sacro non significa salvarsi, ma affidarsi alla complessità del sottosuolo a cui quella profonda ferita conduce; sottosuolo dove i segni s’interrompono e si frantumano e poi s’intrecciano e si aggrovigliano gli uni con gli altri; dove la figura della cupola s’impone come un’emergenza nella notte oscura dell’anima, quale testimonianza di un’emozione fragile e friabile, lunare e impalpabile.
Come non rilevarlo? L’arco della cupola tende verso un’azzurrità irraggiungibile, premessa all’impossibile conoscenza di quello che noi siamo.

Questa straziante alleanza tra storia e principio sembra identificarsi con l’anima stessa, quando questa designa qualcosa che esiste solo allo stato nascente oppure soffre per una perdita, per una caduta.
Nella prossimità del sacro non abbracciamo solo la grande impresa e la vittoria, ma anche la disfatta e il tramonto. Ecco perché nulla è escluso nell’opera di Perotti, in questa impresa che vuole sperimentare la coappartenenza dello spirito con la polvere, la conciliazione tra la leggerezza degli angeli e il peso della ragione.

Il gesto di Perotti corrisponde all’emancipazione spirituale di una ricerca interiore fondata filosoficamente ed espressa in senso artistico. Si rivolge a qualcosa di più antico e di più sacro degli dei. Si rivolge all’essenza originaria, al fondo di ogni cosa: là dove riposa un mondo antico che nonostante molti aspetti di rozzezza e mostruosità può tuttavia chiamarsi il regno della libertà di agire, il regno della sospensione del tempo e del destino.

Il Geviert heideggeriano trova qui il suo segno. Stare sulla terra (tra ciò che sorgendo cresce e matura) vuol dire essere sotto il cielo (nell’avvicendarsi della luce e delle tenebre). Sulla terra implica già sotto il cielo, e in questo frammezzo si apre la dimensione che collega i divini (coloro che indicano la via che conduce al sacro) ai mortali (coloro che sono in grado di esperire la morte in quanto morte). Quella cupola è il punto di incontro tra esseri umani e celesti. Quella cupola, tra cielo e terra, traccia il limite che ciascuno dei quattro – terra e cielo, divini e mortali –non può valicare. Oltre quel limite c’è il sacro. E ciò va visto fino alle sue estreme conseguenze: non si dà terra se non terra-del-cielo; ma, a sua volta, non vi è cielo se non in quanto cielo-della-terra.

Perotti ci indica qual è il compito dell’artista nell’epoca presente, quando gli dei possono essere vicini soltanto con la loro lontananza; quando l’essere umano e i celesti s’incontrano solo nella loro reciproca infedeltà.
Nella frattura di un segno in procinto di perdersi, l’opera di Perotti testimonia che tale infedeltà per gli dei si è tradotta in fuga. Il compito dell’essere umano è apprendere e vedere nelle tracce lasciate sulla sabbia proprio l’assenza – probabilmente irrevocabile – dei celesti. Non solo. Il successivo volgersi dell’essere umano a se stesso è l’atto decisivo che fonda i confini del mondo autentico. Si tratta di un gesto dal carattere disvelatorio e non certo teso all’abbellimento della realtà.
Si tratta di un gesto non privo di resto. Un resto che si traduce in domanda: l’essere umano, nella sua essenza tradizionale, è preparato a questa responsabilità? Alla richiesta che gli viene imposta dall’inabissarsi nel nulla del sacro?

Flavio Ermini

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