A chi conosce il Roberto Perotti uomo può sembrare che il Roberto Perotti artista sia una sua seconda personalità, come se lui conducesse una doppia vita, una nel mondo e una fuori dal mondo, quella appunto da cui ci mandale sue immagini. Perché queste immagini non appartengono certo al suo mondo, a quello che condivide con chigli è vicino. Non c’è infatti in esso uno spunto, qualche costante che emerga dall’infinito flusso di immagini dacui siamo ogni momento bersagliati nella vita quotidiana, a cui si possa dire che si è “ispirato”, come si dicevaun tempo.

Qualcuno ha detto che nell’arte moderna l’artista non dipinge più quello che vede, ma quello che sente e qualcunaltro ha spinto il detto al paradosso dicendo che così la pittura diventa un mestiere per ciechi. Ma quello che noivediamo nei quadri di Roberto Perotti non è infatti il prodotto di un’immaginazione astratta, una costruzionepuramente interiore che non ha nulla a che fare con il mondo della realtà. Ci sono forme, e ben riconoscibili comeforme della realtà, che ricorrono nei suoi quadri – chiamiamole ‘cupole’ per ora -, ma l’effetto che ciascuna delleloro ricorrenze produce in noi non è mai quello della familiarità con una determinata realtà, con la traccia di unricordo, con il brandello di un sogno davvero fatto: perché? Io credo che la chiave della risposta a questa domanda sia nella ‘struttura’ nascosta complessiva della sua opera,sia qualcosa che appunto non può emergere dalla singola opera, ma solo, come nella mostra che presentiamo, dall’occasione eccezionale della visione complessiva di un gruppo nutrito di opere che riflette un segmento significativodel suo percorso.

Si tratta di una struttura precipuamente musicale – anche la musica è un’arte che solonell’estendersi nel tempo prende figura -, quella della variazione.Si tratta di una variazione su due temi intrecciati, uno, per chi conosce il suo percorso, più antico e profondo, quellodei moduli di colore verticali e l’altro, relativamente più recente, ma ormai inseparabile, quello delle “Cupole”(ma poi diremo cosa sono). Come nell’illustre tradizione della variazione musicale, la struttura appare subitoripetitiva, ossessiva; qualcuno potrebbe dire che i quadri rappresentano sempre gli stessi temi.Ma sarebbe l’errore di chi li guarda uno per uno e non come struttura complessiva. Perché solo così si comprende,- con quella sorta di intuizione globale improvvisa che gli psicologi gestaltisti chiamavano la Aha!-Erlebnis – chela variazione è esattamente il contrario della ripetizione.Lo spirito che si è legato in un volontario vincolo in cui l’amore per l’Uno (il tema) e il desiderio di fuga dal temaverso l’Altro da lui si combattono per creare la loro forma congiunta, lo trasforma innumerevoli volte in qualcosache ogni volta vuole, deve essere diversa dalla precedente, ed esplora tutte le vie che partono dal suo inizio (iltema) in percorsi che ad esso infine ritornano sempre, per ripartire di nuovo in un ciclo che può essere infinito.

Chi mai può negare che, se Bach e Beethoven potessero riprendere in mano le “Variazioni Goldberg” e le “Variazionisu un walzer di Diabelli”, non potrebbero continuarle senza che nessuno possa capire da dove hannoricominciato?Così le “Cupole” e i moduli di colore di Roberto Perotti si inseguono in infinite ‘variazioni’ di un fantastico paesaggiourbano nei suoi quadri. Per chi lo conosce da tempo, queste si configurano anche come percorsi distinguibilicome delle ‘spirali’ il cui moto progredisce attorno a un centro, ma pur tuttavia anche allontanandosenerimanendo nella sua orbita. Le ‘cupole’ di Roberto Perotti, identificabili come tali in una prima fase, non sonoinfatti da tempo più cupole: sono divenute manifestazioni di una stessa forma che ogni volta, secondo lo spiritodella struttura “variazione”, cerca di adattarsi, con poche e sicure differenziazioni iconografiche nel disegno e nelcolore, a un contenuto emotivo e contestuale diverso.

Voci d’anima e d’intelletto

Come nelle ‘variazioni’ musicali, a un certo punto si è persa la memoria del tema originale di partenza, l’archetipodella ‘cupola’, che diviene solo quell’invisibile analogia, quelle reminiscenza platonica che ricorda velatamentel’idea attraverso le mutevoli forme che assume.Talora le cupole sono immensi pianeti sognanti che calano sulla città, altre volte sono mongolfiere che lievitanoverso lo spazio, altre volte ancora (‘astrazioni’) si spogliano della forma in elementi ancora pur sempre riconoscibili:erano il Sacro e ora sono “Vestigia del Sacro”, ma sono ancora, come diceva Jung, sempre “numinose”: sonoinfatti, se si nota, sempre lontane, noi siamo sempre irrimediabilmente ‘fuori’ da esse, non vi penetriamo mai e illoro spazio interno ci rimane radicalmente estraneo.Per chi ha visto lo straziante spettacolo delle semivuote cupole sventrate dell’Aquila, degli orrendi tralicci metalliciche le imbracano, le perforano e le reggono, queste ‘cupole’ di Roberto Perotti significano sempre il perennesogno dell’interezza.

Ferruccio Ferruzzi

 

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