A quanti con appassionata dedizione cercano nuove «epifanie» della bellezza per farne dono al mondo nella creazione artistica.
Giovanni Paolo II, Lettera agli artisti

La prima volta a Gerusalemme, la veduta offerta dal Monte degli Ulivi, smorza il fiato. Non mi riferisco solo alla percezione di una coscienza, quella del credente più che del turista in visita alla città sacra (che sia cristiano, ebreo o musulmano) commosso da una fede. La familiarità del paesaggio colpisce insieme all’impatto violento con la storia, più o meno nota; l’abbiamo vista tutti, fosse anche una sola volta, quella cartolina.
Dal Monte degli Ulivi ecco lo scenario: una distesa di tombe, lungo la direttrice che conduce alla terra promessa, fino al muro che circonda la città antica e, poco dietro, i simboli delle tre religioni monoteiste. Islam, Ebraismo e Cristianesimo nell’unica cinta muraria che è insieme la bellezza e l’incoerenza di Gerusalemme.
Tra il Santo Sepolcro cristiano e il Muro occidentale, comunemente noto come Muro del Pianto, c’è la spianata; a troneggiare nel mezzo una cupola dorata, il luogo d’ascesa al cielo di Maometto e il più antico edificio islamico mai costruito. La Cupola della Roccia (datata 691) è stata eretta sul modello degli edifici di Bisanzio, a loro volta eredi del disegno romano: da Santa Sofia al capolavoro architettonico della basilica della Santa Sapienza nell’antica Costantinopoli, l’arte bizantina si è sviluppata raccogliendo lo stile dell’Impero romano ma inseguendo un canone estetico che voleva enfatizzare la mimesi estatica e al contempo ridurre la distrazione del credente. Le linee e i soggetti si depurano da plasticità e naturalismo per rientrare in un ordine compositivo solido e regolare. Vale nella pittura come in architettura, dove si perfeziona lo stile delle cupole sussidiarie su tamburo.
Si perfeziona, non si modifica.
L’iconografia del sacro, soprattutto in architettura, persevera nel suo statuto secolare. L’impianto architettonico dei luoghi di culto ha rinforzato i dogmi progettuali ma la novità non è contemplata. Le stravaganze d’ordine formale – per fare un esempio, la Cappella di Notre-Dame du Haut in Ronchamp di Le Corbusier – non hanno modificato l’assetto strutturale della costruzione sacra. L’iconografia vince la sfida con il tempo. Il dibattito attorno alla contemporaneità dell’architettura religiosa, che ha visto tra i protagonisti il Cardinale Ravasi, interroga soprattutto l’arte: come si può essere contemporanei nel rappresentare il sacro quando l’approccio iconografico appare del tutto superato?
Innanzitutto l’arte sacra, invece di preoccuparsi della sua contemporaneità, qualità per lo più opinabile e abusata dal gergo comune, dovrebbe porsi in maniera diacronica con la storia, più che sincronica. Si eviterebbe in tal modo la contraddizione semantica di “antico vs contemporaneo”.
Questo dilemma è presente nella poetica più recente di Roberto Perotti, pittore di lunga formazione, militanza e qualità pur senza essere ancora conosciuto dal grande pubblico come meriterebbe. Soprattutto, un artista intellettuale ad ampio raggio, impegnato in progetti di conoscenza molto ambiziosi, come l’associazione PLEF (Planet life Economy Foundation) che unisce manager, imprenditori, professionisti che si occupano a vario titolo di sviluppo sostenibile, oppure Ars Inter Populos, di cui Perotti è presidente, incentrata sul tema dell’interculturalità e sul tentativo di mettere in comunicazione espressioni diverse e distanti a proposito dell’interpretazione del sacro. Il simbolo di questa nobile “mission” coincide con il soggetto pittorico prediletto da Roberto Perotti, ovvero la cupola, soluzione architettonica che si ripete nel cristianesimo, nell’ortodossia e nel musulmanesimo, seguendo una coscienza estetica che attraversa sì il passato, ma solo come nutrimento filosofico, per rivolgersi e aprirsi al futuro.
L’uso dell’oro, alla maniera di Yves Klein, conferma la natura divina dei soggetti che perdono gravità staccandosi dal contenitore (l’edificio religioso) raddoppiando il citazionismo iconico. Cupole, ma anche geometrie semplici, semicerchi, linee e infine gesti che fluttuano nello spazio. Alla maniera di Klein, ancora, i dischi dorati di Perotti sono spirituali più che sacrali. L’aurea mistica è svincolata dalla rappresentazione e sta piuttosto negli occhi di chi osserva.
Il linguaggio pittorico di Perotti deriva, originariamente, dall’Informale, mescolandone la deriva italiana naturalistica (cara a Francesco Arcangeli) con l’immediatezza dell’Action Painting di Jackson Pollock (su dimensioni più contenute e “domestiche”), ma altrettanto con lo sguardo rivolto ad Oriente (impossibile non pensare ad alcuni artisti del Gruppo Gutai, in particolare a Shozo Shimamoto, molto presente a Genova con diverse mostre ed happening). Dal Giappone Perotti eredita il dualismo degli opposti, in particolare nella natura cromatica: il bianco e nero dei suoi fondi come lo Yin e Yang dall’antica filosofia cinese. Il giorno che si tramuta in notte e la notte che ridiventa giorno. Da Mathieu a Scanavino, da Hartung a Hsiao Chin, il pittore ligure dichiara senza mezzi termini di voler appartenere a questa famiglia di pittura gestuale eppure non virulenta, sottile e lirica, che non trascura mai l’eleganza e l’equilibrio.
Nel segno istintuale, eppure cadenzato da un ritmo molto preciso e controllato, organizzato persino in modo seriale, si avverte la formula espressiva dell’automatismo psichico (“comando del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica e morale”, secondo André Breton) che del Surrealismo rappresenta la fase più sperimentale e avanguardista. L’automatismo psichico descritto dal teorico, poeta e filosofo francese, si rispecchia nella pittura di Perotti per quel prendere le mosse innanzitutto da una sensazione, emozionale, piuttosto che dal controllo del gesto: ad essere più razionale è la scelta dei soggetti, quelle cupole, simbolo di un’eclissi sempre più evidente della testimonianza del Sacro. Ciò che trova un aggancio alla realtà è dunque la cupola, motivo dominante e “griffe” autentica del suo autore, che conserva un richiamo viscerale con il segno pittorico. Allo stesso tempo, proprio il soggetto scelto da Perotti, diventa il pretesto simbolico per un’arte più “concettuale”. La sua pittura però, non vive solo nella categoria del pensiero ma si appropria del vissuto per dare all’astrazione il plus valore del vero: la sua pittura vive nell’intenzionalità del pensiero ma arricchendosi di carattere e soggettività, esperiti prima di diventare categoria astratta.
La cupola, in senso percettivo, è il luogo di convergenza del potere, di flussi ed energie canalizzate nel centro perfetto della circonferenza entro cui è disegnata. Ma la cupola, come forma figurata, è anche l’ampolla, il ventre, la cavità materna dove il seme è condotto alla vita. È l’architettura primordiale accogliente, la caverna o l’igloo, che identifica la familiarità del rifugio o della casa. Ed è una delle possibili sintesi iconiche per rappresentare, usando le parole dell’artista medesimo, “il sovrastante mistero dell’esistente, un sentimento umano, arcaico, ma anche futuribile, che non può essere rimosso senza che vi sia un immiserimento del sentire.”

Luca Beatrice

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